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Tradizioni funerarie italiane
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Perché il 17 porta male?

"C’è un gesto che molti compiono inconsciamente, quando ci si incontra tra amici e ci si stringe la mano. C’è sempre chi ritira di scatto la propria per evitare di “fare la croce”. Un gesto superstizioso, anche se difficilmente chi lo compie loconsidera tale. Ma perché non sovrapporre le mani quando ci si incontra o, addirittura, quando durante la messa ci si scambia in chiesa il “segno della Pace”? Perché la croce è il più noto simbolo di lutto: evitarlo significa esorcizzare la morte.

Una paura, quella della morte, che ha radici ancestrali e sopravvive anche nell’iper-tecnologico mondo moderno, dove il tempo corre di fretta e ha perso i ritmi della tradizione e della natura. Possiamo mangiare fragole a gennaio, sciare ad agosto, con poche ore d’aereo passare dall’inverno del continente all’estate di un’isola tropicale, con tanti saluti al ritmo naturale delle stagioni. Ma il senso del tempo che scorre ed è limitato per tutti, è vivo nel profondo dell’anima anche se solo a tratti prende la forma di pensiero cosciente. Così sopravvivono i gesti che, dal passato più lontano, servono per “augurarsi tempo” allontanando quello che oggi potremmo definire l’attimo del fotofinish: quello della morte. Consideriamo i numeri che “portano male”: dove, ovviamente, è la morte il male estremo e irreparabile. Sono soprattutto due, il 17 e il 13. Scritto in numeri romani, il 17 è XVII: anagrammando le lettere si ottiene la parola VIXI, che in latino significa “ho vissuto” (e dunque ora sono morto). Per spiegare la nefasta fama del 17 ci sono peraltro altre spiegazioni: nel libro biblico della Genesi (7,11) il Diluvio Universale iniziò “il diciassette del mese”.

Erano invece tredici i commensali dell’Ultima Cena, preludio alla crocefissione di Cristo: tra essi anche il traditore Giuda. Ce ne sarebbe abbastanza per far del 13 un numero ultra-sfortunato, specie se associato al venerdì (giorno della morte di Cristo). Ma non è tutto: il numero è associato alla morte sia nella Cabala sia tra gli Arcani maggiori dei Tarocchi.
C’è di più: l’accenno all’Ultima Cena chiama in causa un altro gesto che molti compiono abitualmente, senza conoscerne l’origine e il significato. Genericamente si dice che rovesciare il sale in tavola “porti male”, perché in passato il sale era merce rara e preziosa (tanto da essere usata al posto del denaro: di qui il termine salario). Ma questo male può addirittura essere funesto, come rivela un dettaglio dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo da Vinci. L’apostolo traditore Giuda è rappresentato col sacchetto dei 30 denari ben stretto nella mano destra: il suo polso urta e versa sul tavolo una saliera.

In un dettaglio del suo grande affresco, Leonardo riesce a condensare una somma di significati: chi ha incassato il prezzo del tradimento causerà la morte del Redentore, rappresentato dalla saliera. Ma perché proprio la saliera? Nella Bibbia il sale è il simbolo del legame tra Dio e il suo popolo: quel legame che Cristo ristabilirà morendo sulla croce. E’ scritto nel libro del Levitico: “Dalla tua offerta non lascerai mancare il sale dell’alleanza col tuo Dio” (Lv 2, 13). San Gerolamo, dottore della Chiesa, aggiunge che Gesù è il “sale della Redenzione”. Per queste ragioni “versare il sale” è un fatto che evoca il lutto, e che si deve evitare con attenzione.

Ne discende il divieto di passarsi di mano in mano la saliera: potrebbe cadere accidentalmente, spandendo il suo prezioso contenuto. A chi la domanda la saliera si porge, ma appoggiandola sul tavolo. E se proprio accade di versare il sale, disgrazia delle disgrazie? Lo scongiuro è pronto: prendere un pizzico della preziosa polvere e buttarla dietro la spalla sinistra. Magari non serve a nulla, però non si sa mai… Potrà sembrare un paradosso: ma in passato la morte era parte della vita. Della vita di tutti, della comunità famigliare o del paese. Era più “conosciuta”: perché la maggior parte dei decessi avveniva a casa, e non in ospedale o in un ospizio come accade oggi. Per questa ragione, forse, era meno temuta. E di sicuro più “accompagnata”, come dimostrano le tante tradizioni presenti in Italia a questo proposito.
Il moribondo, per esempio, non era lasciato solo. Se si capiva che la sua vita stava avvicinandosi alla fine, se ne dava l’annuncio con le campane: suonavano l’agonia, con rintocchi differenti a seconda che si trattasse di un uomo, di una donna oppure di un bambino, e poi davano la notizia del decesso col suono della passata.

In casa, però, si faceva tutto il possibile per ritardare l’inevitabile. Accanto al letto dell’agonizzante c’era sempre qualcuno che filava o tesseva per lui, nella convinzione che l’anima non avrebbe potuto separarsi dal corpo fino a quando quel lavoro non sarebbe terminato. I parenti cercavano di scorgere ël mijorin dla mòrt (il piccolo miglioramento della morte): si credeva, infatti, che poco prima del trapasso il moribondo attingesse a tutte le sue forze residue, quasi a dare l’impressione di una specie di ripresa, per poi arrendersi poco dopo. Si paragonava quest’evento alla fiamma più viva con cui il mozzicone di candela s’illumina, poco prima di spegnersi.
Non appena ci si accorgeva che la morte era avvenuta, si socchiudevano una porta o una finestra: l’anima doveva serenamente “uscire” dalla stanza. Ma non sempre ciò era possibile: restava vincolata e non si poteva liberare l’anima di chi era morto “senza poter dire tutto”, oppure degli incauti che, magari in un momento di spavalderia, avevano promesso di “ritornare” per fornire, in sogno o in altro modo, i numeri buoni da giocare al Lotto.

La salma veniva lavata e poi vestita, ma senza usare indumenti di lana. Se si dovevano lavare degli indumenti del defunto, si faceva attenzione a usare acqua tiepida e non bollente. Poi il corpo, coperto da un lenzuolo, veniva collocato su un letto, in modo che avesse i piedi puntati verso la porta. E’ una posizione simbolica, che indica come il defunto sia in procinto di “uscire” e andarsene per sempre, lasciando dietro di sé la propria famiglia.
A quel punto iniziava la veglia funebre: la salma non era lasciata sola. Famigliari e amici si davano il cambio per recitare il Rosario e altre preghiere. In alcune Regioni nelle ore notturne vegliavano solo gli uomini. Nel Biellese, c’era l’uso che i famigliari baciassero il volto del morto poco prima della chiusura della bara. In quel frangente dicevano “Tu vai nella pace: ricordati di coloro che abbandoni e rimangono nella guerra”. Baciare il morto, secondo la tradizione, aveva anche un altro scopo: avrebbe dato coraggio nel caso (peraltro non così frequente) in cui ci si fosse trovati di fronte al fantasma del defunto.
Pessimo presagio, invece, il sogno in cui si viene baciati da un defunto, perché è l’invito a “seguirlo”."