"Il lutto come una malattia, da cui prima o poi è dunque possibile “guarire”? Come cicatrizza, come sedimenta nell’animo la lesione causata dalla scomparsa di una persona cara? L’analogia con una ferita non è casuale: così come al corpo occorre tempo per risanarsi, così all’animo lacerato da un distacco serve un periodo più o meno lungo per ristabilire il proprio equilibrio. La durata di questa fase dipende però da molti elementi: innanzitutto dalla vicinanza con chi è scomparso, e poi dal carattere personale di chi rimane. C’è dunque un “giusto tempo”, che non può essere né affrettato né deve prolungarsi all’infinito: la meta è quella che gli psicologi definiscono elaborazione del lutto.
Lo stato di dolore profondo, di angoscia interiore non può e non deve infatti prolungarsi all’infinito. L’animo umano ha in sé le capacità di cicatrizzare le ferite più gravi perché, proprio come accade per le piaghe fisiche, o si arriva a una guarigione oppure il male si estende al resto del corpo. Il tema dell’elaborazione del lutto, che oggi è ampiamente noto sul piano scientifico, non è però una scoperta recente. Molte culture lo hanno codificato in modo da guidare verso l’inevitabile ed essenziale guarigione interiore. Nella tradizione piemontese, per esempio, fino a pochi decenni fa chi subiva la scomparsa di un parente stretto era tenuto a particolari regole di abbigliamento: per un anno (o sei mesi) abiti interamente neri per le donne, oppure una fascia nera al braccio o un bottone nero all’occhiello per gli uomini.
Seguiva poi il “mezzo lutto”, che durava metà tempo rispetto al lutto: alle donne erano concessi il grigio o il viola per i vestiti e una camicetta bianca, mentre riprendeva gradualmente anche la vita sociale.
Parlare oggi di lutto e mezzo lutto può sembrare anacronistico, in una società regolata da rapidità e cambiamento costante, dove “ieri” è già passato remoto. Eppure, per usare un’espressione tratta dal Qoèlet, il libro più problematico della Bibbia, il “tempo per piangere” deve essere rivendicato, e vissuto come balsamo che risana anche le ferite più gravi. Già sapendo che in un dopo che è certo (anche se non si può dire a priori quando arriverà), si riaffaccerà anche il “tempo per ridere”. Il tema di elaborazione del lutto, è d’obbligo citare Elisabeth Kübler Ross. Il suo nome non è certo noto al grande pubblico.
Tuttavia i suoi studi sulle ultime fasi della vita umana rappresentano una pietra miliare della psicologia, e sono per gran parte analizzati nel saggio “Sulla morte e sul morire” (1969).
I “cinque passi” che la dottoressa Kübler Ross indica per il morente sono applicabili anche a chi sta subendo o ha appena patito la scomparsa di una persona cara. L’obiettivo finale è quello di giungere alla elaborazione del lutto, la condizione in cui la memoria di chi non c’è più cicatrizza nell’animo e, pur persistendo, non genera più un dolore continuo. Secondo la psicologa svizzera, nata a Zurigo nel 1926, il primo passo è quello del patteggiamento. Trasferito a chi è vicino a un morente, è il momento in cui si chiede ancora tempo. Per godere di una presenza che pur se sofferente è ancora reale, per provare a dire ciò che in passato si è taciuto o non si è stati capaci di dire, per rimandare un traguardo che si avverte come inevitabile.
Perché il destino naturale di ogni esistenza, anche la più longeva, è quello di terminare. Ed ecco arrivare allora la negazione: il senso di irrealtà collegato alla scoperta di aver passato il punto di non ritorno, di aver superato la linea di confine tra il “prima e il “dopo”. E’ un passaggio che si avverte come ingiusto e inspiegabile tanto che, superato lo smarrimento iniziale, si arriva alla rivolta, tanto più violenta quanto la scomparsa è stata imprevista e improvvisa. Ci si chiede perché, tra i tanti fili della vita, la divinità o il fato abbiano reciso proprio quello: è il momento della ribellione profonda, che assorbe e brucia le energie interiori.
La quarta fase è allora inevitabile: quella della disperazione. Vuoti di forze e di lacrime, ci si rende conto che della persona casa che se n’è andata occorrerà parlare solo più al passato, e che bisognerà trasferirne l’immagine dal piano della presenza a quello della memoria. Ci si avvia così verso la quinta e ultima tappa, quella dell’accettazione: farsi una ragione, comprendere quanto scandite e inevitabili siano le stagioni dell’esistenza. Capire come molto di ciò che chi è scomparso rappresentava sopravviva in noi e negli altri, e come chi non c’è più sia oggi affrancato dai limiti dell’umana esistenza."