Poche culture come quella egizia hanno dato tanta importanza alla vita oltre la morte. Proprio per questa loro concezione oggi abbiamo notevoli reperti archeologici che raccontano il passato di una delle civiltà antiche più floride e significative del Mediterraneo.
Va da sé che un argomento così complesso non può essere esaurito in poche battute. Ma si potrà approfondire in modo eccellente con una visita al Museo Egizio di Torino, che al mondo è secondo solo a quello del Cairo.
Per gli Egizi, la morte non segnava la fine dell’individuo. Apriva invece a una vita senza fine nell’oltretomba, possibile grazie a tre elementi che l’uomo condivide con la divinità:
- l’akh, cioè la forza divina, simboleggiata dall’ibis;
- il ba, cioè l’anima (il suo simbolo è l’uccello mitologico benu, una sorta di fenice);
- il ka, cioè la forza vitale, capace di conservare ricordi e sentimenti della vita terrena.
La condizione indispensabile affinché un defunto potesse continuare a vivere nell’aldilà stava nel mantenimento dell’integrità del corpo, possibile grazie all’elaborata tecnica della mummificazione.
Preservare un cadavere dalla corruzione, in un ambiente caldo qual è l’Egitto, non è impresa da poco. Gli specialisti provvedevano innanzi tutto ad asportare le parti del corpo più deperibili (visceri, ecc.), che venivano conservati in quattro vasi detti canopi. Il corpo veniva trattato con vari ingredienti (carbonato di sodio, sostanze ricavate da piante aromatiche, ecc.), avvolto in bende e poi deposto in un sarcofago.
Ovviamente più la persona era d’alto grado, e più il sarcofago era ricco e complesso. La mummia del faraone Tutankhamon, per esempio, era in un sarcofago di granito, che a sua volta racchiudeva uno dentro l’altro tre sarcofagi che riproducevano le fattezze della persona.
Le tombe egizie erano arricchite da corredi, tanto più ampi e preziosi quanto più era stato importante il defunto. Nei corredi, insieme ad oggetti d’uso comune e a contenitori di cibo, si trovano anche statuette di due tipi. Il primo è quelli dei servitori, che nell’aldilà avrebbero dovuto provvedere alle necessità del defunto. Per questo sono frequenti le immagini di donne che macinano il grano, preparano la birra o portano offerte. Le altre sono immagini del defunto stesso (ushabti), nelle quali la sua anima si sarebbe potuta incarnare nel caso la mummia fosse stata danneggiata o distrutta. Il loro numero era variabile: la tradizione ne prevedeva uno per ogni giorno dell’anno, più la statuetta di un caposquadra ogni dieci ushabti. E’ perciò facile capire quanto fossero ricche le tombe dei dignitari, e quando nei secoli abbiano attirato i predoni che le cercavano per svuotarle di ogni oggetto prezioso.
In aggiunta alla messa a punto di raffinate tecniche di imbalsamazione, gli Egizi si impegnarono nella costruzione di contenitori (i sarcofagi) e di tombe. In epoca storica, per la sepoltura si allestirono tre tipi di manufatti: l’ipogeo (tomba scavata nella roccia), la mastaba (una sorta di cappella costruita sopra una camera sepolcrale sotterranea e, ovviamente, la piramide.
In Egitto di piramidi ce ne sono parecchie: quasi tutte sulla riva occidentale del Nilo, perché si credeva che sulla sponda opposta, dove tramontava il sole, ci fosse la Duat (l’oltretomba). Le piramidi più note sono quelle di Giza, alla periferia del Cairo, su cui veglia la gigantesca statua della Sfinge. Tra esse la più famosa è quella di Cheope, l’unica tra le “sette meraviglie del mondo antico” che sia giunta fino a noi.
Nel corso dei secoli, la concezione egizia dell’aldilà subì notevoli trasformazioni. In epoca arcaica si credeva che le anime si trasferissero nel cielo stellato, mentre in seguito le si collocò in un oltretomba che aveva per guardiano la divinità Anubi. Se in origine si pensava che la sopravvivenza eterna fosse riservata solo ai sovrani, in seguito si estese anche a tutte le classi preminenti e, più in generale, a chi si poteva permettere una cerimonia funebre canonica.
Verso la dodicesima dinastia si iniziò a credere che il mondo dei morti fosse sotto terra, e che fosse il dio Osiride a governarlo. Si credeva però che l’accesso fosse governato dal “giudizio dell’anima” (psicostasia). Se il cuore del defunto, posto su una bilancia, pesava quanto una piuma (deposta da Maat, dea della giustizia e della verità), allora le porte dell’aldilà si spalancavano.
Se invece l’anima era più pesante a causa dei suoi peccati, Anubi la dava in pasto ad Ammit (“colei che ingoia il defunto”), cioè la divinità mostruosa che riassumeva in sé i tre animali più pericolosi che vivevano nel Nilo e lungo le sue rive: l’ippopotamo, il coccodrillo e il leone.Poche culture come quella egizia hanno dato tanta importanza alla vita oltre la morte. Proprio per questa loro concezione oggi abbiamo notevoli reperti archeologici che raccontano il passato di una delle civiltà antiche più floride e significative del Mediterraneo.
Va da sé che un argomento così complesso non può essere esaurito in poche battute. Ma si potrà approfondire in modo eccellente con una visita al Museo Egizio di Torino, che al mondo è secondo solo a quello del Cairo.