La società moderna non vuole avere a che fare con la morte : è un dato di fatto. L'ultimo atto dell'esistenza umana viene nascosto, delegato ad altri, quasi fosse una questione che non riguarda.
Addirittura non se ne parla, e ancor meno se ne scrive: quando c'è di mezzo la morte ogni eufemismo è benvenuto.
«Una volta era più naturale parlare della morte, ora siamo diventati creativi pur evitare il discorso – scrivono gli autori dell'articolo "Passare oltre, tirare le cuoia, concimare le margherite: in che modo evitiamo di parlare della morte", pubblicato sul sito australiano ABC news – Per esempio, parliamo di persone che "passano oltre" o che "se ne sono andate", rischiando di generare confusione e imbarazzanti malintesi».
E proprio un malinteso di quelli da morire di vergogna è citato dallo scrittore Luca Goldoni nel suo saggio Il Sofà (Rizzoli, 1988). L'autore parte da una premessa: «Usiamo l'essenziale vocabolo [morte] solo nelle metafore – morto di sonno, morto di stanchezza – e non lo usiamo mai a proposito. Su "Il Corriere" dell'8 aprile, in 71 necrologi si parla 35 volte di scomparso, 18 di mancato, 18 di irreparabile perdita. Il vocabolo morto compare solo 4 volte, perché morire è considerato sconveniente».
Poi lo scrittore cita un aneddoto : «Non farei queste lugubri considerazioni se l'abuso della metafora non avesse provocato uno strano incidente. Su "Il Resto del Carlino" apparve tempo fa questo annuncio: "Gli amici di XY che ieri ne avevano annunciato la scomparsa sono lieti di informare che si è trattato di un doloroso equivoco". Risultò che un amico dello "scomparso", tornando da un viaggio gli aveva telefonato. Aveva risposto la moglie in lacrime: "Ci ha lasciato...ci ha lasciato...". Ed effettivamente li aveva lasciati, ma in compagnia di una bionda di duecentoquaranta mesi».
Perché si ricorre agli eufemismi? C'è chi ha paura che la parola diretta sia troppo dura , addirittura sconvolgente, e chi la ritiene inopportuna, quasi ineducata . Ma non si pensi che certi eufemismi siano solo di oggi. Ci sono anche frasi storiche che hanno ancora senso oggi, come "rimescolato da questa spirale mortale" (dall' Amleto di Shakespeare); "sei piedi sotto" (dal 1665 circa, riferito alla profondità di seppellimento delle vittime della peste ); "promosso alla gloria" (utilizzato dall' Esercito della Salvezza fin dal XIX secolo).
In realtà raccontare le cose come stanno è sempre la soluzione migliore : anche quando si parla con i bambini . Col giustificato intento di proteggerli dalle durezze dell'esistenza, a proposito delle persone che non ci sono più si inventano giri di parole che, invece di dare la tranquillità che deriva dalla chiarezza, rischiano di innescare o amplificare dei timori, oppure di far sorgere attese ingiustificate.
Quando si sveglierà quel nonno che "si è addormentato"? Quando tornerà, la nonna che "è partita per un lungo viaggio"? E se è "andata in un posto migliore" perché non la raggiungiamo subito anche noi?
«Utilizzare le parole giuste aiuta a normalizzare la morte e il morire – concludono gli autori australiani - Ci aiuta, da una parte, a prepararci alla morte di coloro che amiamo e, da un'altra, a prendere decisioni ragionate e consapevoli in materia di fine vita e di post mortem».