Quando è che l’uomo è diventato “uomo”? Quando è iniziato il percorso di civilizzazione che si è poi articolato lungo i millenni, per giungere fino a noi? Gli elementi che possono essere considerati caratteristici sono parecchi: la comparsa del linguaggio, la capacità di rappresentare la propria realtà attraverso espressioni artistiche, la formazione di nuclei permanenti.
Tra i tanti elementi significativi, uno dei più importanti è quello della comparsa del senso di trascendenza: a un certo punto gli uomini, preso atto della finitezza della loro esistenza, si resero conto che poteva esistere un aldilà, che la vita umana era regolata da forze esterne (che potevano corrispondere a divinità), e che a chi moriva dovevano essere attribuite particolari attenzioni. Anche se “primitive”, le antiche sepolture devono perciò essere considerate come espressioni di civiltà: la morte non è più un fatto casuale, ma si trasforma in un evento che coinvolge il gruppo, piccolo o grande che Sia.
Proprio con un accenno al concetto di morte presso i popoli primitivi inizieremo una carrellata nel tempo e nelle culture, alla scoperta di quanto questo tema così fondamentale abbia interrogato da sempre l’uomo, che a sua volta ha cercato di elaborare teorie e risposte. Sembra che il primo a praticare riti funebri sia stato l’uomo di Neanderthal, che visse in epoca paleolitica tra i 130.000 e il 30-25.000 anni fa in Europa, Asia e Africa.
Gli scavi archeologici hanno rilevato nei suoi insediamenti tracce abbondanti di ocra rossa, che fanno pensare a usi rituali e religiosi. La scelta dell’ocra rossa non è casuale: ricorda il colore del sangue e, come tale, della vita. Presso i Neanderthal l'inumazione era una pratica diffusa, in fosse di forma ovale, con corredi funerari (cibo, corna e oggetti in pietra, piccole sculture), spesso ricoperte da lastre di pietra per tenere lontani gli animali selvatici, e con la deposizione di fiori.
Ma per quale ragione gli uomini preistorici decisero di seppellire o di cremare i defunti? Probabilmente la risposta è doppia. La prima, pratica, fu di contrastare le conseguenze della decomposizione dei cadaveri: insediamenti stanziali, composti da un numero significativo di persone, non potevano semplicemente abbandonare i defunti, lasciando che fosse la natura a fare il suo corso. Ma la seconda regione, più profonda, parte dal punto di vista del defunto: le esequie consentono alla sua anima di trovare pace e la via per l’aldilà, evitandole di restare legata al luogo e alle persone con cui aveva vissuto.
Il seppellimento portava con sé alcune cerimonie accessorie. In chiave purificatoria, in certi casi si abbandonava la casa dove s’era verificato il decesso. Spesso avveniva poi il banchetto funebre, in commemorazione del defunto: veniva servito a poca distanza dalla tomba, nella certezza che anche l’anima del defunto sarebbe stata presente. Curiosa, a questo proposito, la presenza di massi forati nelle zone in cui avvenivano le sepolture. Detti “fori delle anime” erano dei canali attraverso i quali gli spiriti dei defunti comunicavano con i vivi.
Dalle forme di trattamento dei cadaveri (inumazione o cremazione), dagli atti simbolici ad essa collegati, emerge perciò un dato di fatto che accomuna le varie culture preistoriche: il tentativo di controllare, rallentare e fornire un senso alla disgregazione dei corpi. La “cultura del morire”, nella preistoria, è inoltre un evento sociale, che non riguarda il singolo individuo bensì l’intera comunità.